di Aurelio Cocco www.puntozero.tk
L’identità culturale di un popolo, la sua lingua e i suoi costumi, la riscoperta delle tradizioni locali sono valori che oggi stiamo perdendo in quanto non funzionali alla società che viviamo e al suo consequenziale sistema economico qual è appunto il liberismo. La società moderna, che corrisponde ad una concezione puramente materialistica dell’esistenza, trova le sue radici culturali nell’Illuminismo ed in particolare nella “ teoria del contratto” formulata da Hobbes nel suo “Leviatano”. Secondo il materialismo meccanicistico di Hobbes la ragione e la scienza possono conoscere e spiegare soltanto gli oggetti di cui si può apprendere la causa produttrice, tali oggetti sono quelli generabili. Siccome gli unici oggetti generabili sono i corpi ne consegue che gli oggetti estesi o materiali sono, sempre secondo Hobbes, i soli oggetti possibili della ragione. Lo spirito umano non viene considerato come qualcosa di incorporeo ma come un’immagine apparente dell’oggetto corporeo che la produce nei nostri organi di senso. Tutto viene spiegato in termini di movimento e corpo cioè materia (1) . Hobbes intende per “corpo” qualsiasi cosa che possa venir divisa in parti e da queste ricomposta. L’essenza di ogni corpo, sia fisico sia sociale, si può capire soltanto attraverso questa separazione e reintegrazione di parti (2) . La società è quindi un corpo e come tale è formato da parti che prima dell’unione sono dei singoli elementi, quest’ultimi corrispondono alle volontà individuali di ogni uomo che incontrandosi segnano il passaggio dallo stato di natura allo stato civile. Il processo che porta alla volontà collettiva, come risultato delle volontà individuali, è costituito dal contratto attraverso cui gli individui entrano in un rapporto di obblighi reciproci dando vita ad una “ associazione spontanea (che) nasce o dal bisogno reciproco o dall’ambizione, mai dall’amore o dalla benevolenza verso gli altri” (3) . La rinuncia alla volontà assoluta viene compiuta sotto la spinta del timore reciproco esistente in ogni Homo Homini lupus e al fine soltanto di poter godere tranquillamente dei propri beni materiali. Il principio “la mia libertà finisce dove inizia la tua” consiste proprio nel porsi dei limiti vicendevolmente per trarre da questo “pactum subiectionis” i vantaggi economici e amministrativi dell’interdipendenza sociale. Lo Stato diventa una “persona artificialis” creata dagli individui che sono gli unici soggetti originari della legge. Come viene fatto osservare lucidamente in alcuni scritti del Gruppo di Ar (4) lo Stato per il Contrattualismo “ è un complesso burocratico amministrativo atto a garantire la sopravvivenza materiale e la libertà individuale (e la proprietà privata) dei soggetti sociali” ed è “ in questo terreno (che) affondano le radici dell’economia politica e della teoria dello Stato capitalistico-borghese” . Continua ancora il Gruppo di AR : “L’individuo è considerato al di fuori, astratto dalla comunità di stirpe…la vera caratteristica di questa concezione del mondo è il prescindere da una parte della realtà dell’uomo, ossia da tutti i fattori autenticamente qualitativi, spirituali, che sono “i fattori significanti” dell’umano, per considerare unicamente il livello meccanico-passionale, la dinamica degli interessi”. Ecco allora che oggi assistiamo ad una caduta di livello dell’uomo da persona, e come tale appartenente ad una comunità di valori, di tradizioni e quindi di identità, a individuo-atomo cioè a corpo che ha per unico movimento la soddisfazione dei propri interessi in quanto consumatore, ridotto ad animale da ingrasso foraggiato all’infinito dall’economia industriale di sviluppo. I valori spirituali discendenti da una comune weltanschauung, tramandati in forma di simboli e miti, tralucentesi in un piano più materiale, ma sempre connesso con le origini, quale le tradizioni locali e i costumi sociali, costituiscono degli inceppi per il meccanismo economico. Le diversità etniche e culturali, ricchezza qualitativa del nostro pianeta, vengono viste dalla classe mercantile come degli steccati ostacolanti il loro allevamento di animali da macello, come dei limiti alla loro economia espansionistica che proprio perché è fondata sul plusvalore ha bisogno sempre più di nuovi consumatori soprattutto quando il loro mercato ha raggiunto il livello di saturazione nonostante l’invenzione di nuovi bisogni artificiali. In una società contrattualistica dove il ruolo sociale dell’individuo è legato al posto che occupa nei rapporti di produzione, dove l’uomo è sradicato dalla sua terra e dalla sua comunità perché ciò è utile alla logica del mercato, l’identità deve essere eliminata regnando ciò che già uno scrittore medievale disse dei mercanti “Quo avaritia promovet, eodem currunt mercatores, quos neque sanguis, neque caritas soli retinen”. Ma un meccanismo del genere non ha una stabilità permanente e per evitare che le volontà individuali ritornino allo stadio originario di forze centrifughe bisogna orientarle in direzione centripeta . Questo compito viene assolto dall’etica sociale che, perduto ogni legame col piano metafisico, diventa lo strumento per massificare gli uomini, renderli anodini e funzionali alla realtà economico-produttiva (5). I mass-media e la cultura che ci trasmettono sono significatavi a tal proposito: dalle reti televisive non facciamo altro che subire passivamente un modello di società che ci viene imposto, quello consumistico d’importazione americana. Di fronte all’insensatezza che ognuno avverte l’unico significato della propria vita è quello di raggiungere il successo in termini economici, trascinandosi in un vorticoso carrierismo di origine protestante che tanto ha impregnato la società americana. L’anonimato di cui soffrono le masse si cerca di risolverlo con i vari status symbol che il mercato propina, oggi per essere famosi bisogna apparire nei grandi schermi e diventare una star e cosa sconcertante è la moda dei Vip che ha “ficcato in testa alla piccola gente che le sue mediocri virtù valgono qualcosa”, l’uomo non vale più per ciò che è ma in base a quanto guadagna all’anno. L’ossessione del fare, del conquistare, del record corrisponde come ha rilevato Evola alla concezione attivistica e faustiana della vita (6). In termini metafisici si tratta della contrapposizione tra l’Esssere e il Divenire, dove la propensione per la seconda via denota uno spostamento dell’asse del sé al di fuori della propria persona e un continuo cambiare di forma in forma nel tentativo prometeico di appropriarsi di una coscienza del sé che non si raggiungerà mai proprio perché si compie la ricerca fuori di sé stessi. In tutto questo la riscoperta delle identità costituisce un fattore essenziale per opporsi al depauperamento esistenziale che la civilizzazione e la società progressista hanno eretto a verità universale di una legge naturale, legge verso la quale tutti i soggetti hanno eguali diritti di pretesa e pertanto deve essere esportata ad ogni costo; è quella visione universalistica e intollerante che Massimo Fini chiama il “vizio oscuro dell’Occidente” . Il ritornare al livello locale, il recuperare ritmi di vita più lenti ma più intensi, indispensabili per mantenere dei legami personali e per ricostruire il tessuto sociale che ormai si sta sfaldando, il controllo dell’ambiente e il governo diretto nelle forme possibili del territorio, passano tutti per la strada dell’identità e della comunità. In una realtà come quella sarda che deriva da una civiltà millenaria e che fino a cinquanta anni fa era strutturata in comunità agro-pastorali il ritorno a stili di vita “umani” è ancora possibile. La lingua sarda (e non dialetto) che parliamo, ma stiamo perdendo, deve essere la nostra roccaforte contro il livellamento che l’insegnamento dell’inglese nelle scuole elementari già sta producendo. La lingua non è solo un codice alfabetico con cui due persone si capiscono, ma è anche e soprattutto il riflesso di una determinata “forma mentis” di un popolo, è la traduzione in suoni di una civiltà che la esprime. Questo è il punto di partenza e nell’insegnare la nostra lingua dobbiamo farlo riconnettendoci con lo spirito dei nostri antenati, perché solo così possiamo apprezzarne il valore e capirne l’essenza. Le nostre comunità erano rimaste essenzialmente agro-pastorali anche dopo l’industrializzazione, e il legame fra l’uomo e il suo gruppo di appartenenza era rimasto forte tanto che fino a qualche decennio scorso si veniva conosciuti e ci si faceva conoscere per il proprio parentado : “De sos cales ses ?” “di chi sei?”, “a quale gruppo appartieni?” e si rispondeva “so de sos tales” cioè “sono della famiglia dei Tali”. Il sardo non conosceva l’alienazione dell’uomo moderno perché viveva in comunità e in funzione di essa, la vita si svolgeva secondo i ritmi del lavoro che non era frenetico ma a sua volta seguiva i cicli della natura. Così a periodi di duro lavoro si alternavano momenti di riposo e di ritrovo per la comunità che consolidava i propri vincoli e si ricollegava alle sue origini ancestrali: “su ballu tundu” (il ballo tondo) non era una esibizione coreografica fine a sé stessa, alla quale molti assistono oggi con mero gusto da borghese, ma era un ballo di gruppo che si univa in cerchio, simbolo magico e forma di protezione per i membri della Comunità.
di Aurelio Cocco www.puntozero.tk
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