L’ha detto il sindaco di Salt Lake City, Ross «Rocky» Anderson, rivolto ai suoi concittadini:
«Vi imploro: mettete un limite. Pensate esattamente dov’è il vostro punto di rottura morale. Quanto siete disposti ancora a sopportare prima di dire ‘basta’ e farlo sul serio».
L’invito era a dire basta al governo Bush, ed è significativo che venga da un sindaco.
Pochi giorni fa un amico bresciano sognava ad occhi aperti (anch’io con lui) cosa accadrebbe se tanti sindaci del Nord, molti dei quali leghisti, rifiutassero obbedienza al governo.
Anzi meglio: non ne riconoscessero l’autorità.
E si rivolgessero direttamente al presidente della repubblica, come ha fatto il generale Speciale dando le sue dimissioni dalla GDF direttamente a Napolitano anziché al ministro di riferimento, Padoa Schioppa.
Perché, qualunque giudizio si dia di Speciale (il mio non è alto), bisogna ammettere che quello suo è stato già un atto rivoluzionario, magari inconsapevolmente.
Con l’amico bresciano si parlava della necessità di pensare ormai in Italia in termini di rivoluzione: ossia fuori dalla «legalità», e come ristabilire la «legittimità».
Qualunque azione legale, riformista o parlamentare, è vana: la Casta, illegittima, ha dalla sua il «diritto» formale perché l’ha sequestrato, lo crea e lo applica a suo unico profitto.
Quando diventa moralmente necessario disobbedire alla «legalità» corrente, che produce devastazioni, disobbedire allo «jus conditum» (il diritto vigente) secondo leggi «de jure condendo»?
Questo dice il sindaco di Salt Lake City, e piuttosto chiaramente.
In Paesi diversi sale questa sorda volontà di rivolta dei cittadini contro poteri costituiti, di esasperazione verso «democrazie» che sono oligarchie e lobby, truffaldine o belliciste.
Negli Stati Uniti il discorso comincia a farsi pubblico, con una crescente chiarezza del fine e con le ovvie incertezze sui mezzi.
L’appello del sindaco Rocky Anderson è citato da Nina Rothschild Utne (eh sì, è della famiglia), editrice dello Utne Reader, una rivista molto di sinistra liberal.
La quale propone dal canto suo la rivolta fiscale anti-guerra.
Il suo appello: «Vogliamo gente che firmi un impegno scritto ad impegnarsi nella disobbedienza civile ritenendo una percentuale delle sua tasse, ma solo se si raggiunge entro il 15 aprile 2008 la massa critica di 100 mila firmatari. La sicurezza è nel numero».
Una massa di disobbedienti fiscali abbastanza grossa è in grado di battere, ragiona la Rothschild buona, la persecuzione «legale» che si abbatterebbe su questi «evasori».
Significativamente, la editrice ricorda i motivi di legittimità di una tale azione illegale: la resistenza fiscale violenta portò alla Magna Charta nel 1215, ossia alle libertà inglesi.
Ricorda Henry David Thoreau, un celebre resistente americano, e il suo saggio: «Sul dovere della disobbedienza civile», che ispirò Gandhi e Martin Luther King.
Ricorda che durante la guerra del Vietnam decine di migliaia di americani ritennero il 10% delle accise sulla telefonia col motivo che queste accise non erano state autorizzate per finanziare guerre. Dà notizia dell’esistenza di gruppi popolari che già organizzano la rivolta, come il National War Tax Resistance Coordinating Committee, e di siti connessi, come Code Pink (femminista) e www.dontbuybushwar.org.
Una «seconda Rivoluzione americana» propone Joel Hirschhorn (eh sì, anche lui ebreo buono) cattedratico a riposo di ingegneria.
Egli incita alla sollevazione popolare per esigere «la verità sull’11 settembre», e si sorvoli per ora sull’ingenuità, perché Hirschhorn parte dall’11 settembre con il «programma politico» di mettere in crisi il sistema politico-costituzionale USA.
E l’accento è messo qui sull’azione politica, più che sul complottismo.
«Solo il 16% degli americani», esordisce il professore, «crede che i membri del governo Bush dicano la verità sull’11 settembre… ma ciò che la gente dice nei sondaggi non è la stessa cosa che schierarsi pubblicamente e rumorosamente per la verità sull’11 settembre, o capire che la causa dell’11 settembre non sta nelle azioni di pochi malvagi, ma nel degrado della democrazia americana».
Interessante considerazione, a cui non tutti forse arrivano, anche i più esasperati tra noi: esprimere scontento, esasperazione e derisione «non» sono di per sé atti rivoluzionari.
Per questi, occorre la «massa critica» evocata dalla Rotschild Utne.
Si può andare avanti per decenni a lamentarsi e mormorare, ma senza alcun esito reale.
Bisogna «fare».
La riflessione di Hirschhorn è vicina, ma si ferma prima, della recisa asserzione che Malaparte ha espresso nel suo «Tecnica del colpo di Stato».
E’ l’assioma primo della rivoluzione: «La conquista dello Stato non è un problema politico, ma tecnico».
Problema tecnico?
Significa: la rivoluzione va organizzata tecnicamente.
Bisogna sapere «come fare».
L’organizzazione è quella che manca, anche se l’esasperazione cresce: da qui si vede, per esempio, il tradimento radicale della nostra sedicente «opposizione» italiana.
Non organizzano ciò che il popolo chiede.
Bossi minaccia la rivolta fiscale, ma non dice «come farla», non mette a disposizione i mezzi. Berlusconi ripete che «il governo cadrà da sé», «si voti e vinciamo le elezioni».
In vista della legittimità da instaurare, de jure condendo, questo è tradimento.
Anzi, aggiunge Malaparte: «La gravità della situazione politica e sociale non è di per sé circostanza favorevole alla presa del potere» (alla rivoluzione).
E’ una paradossale ma profonda verità.
Quando, come sta già accadendo in USA, centinaia di migliaia di tartassati dai mutui variabili perdono la casa pignorata e vivono nelle auto e sotto le tende, o perdono il lavoro nella recessione, essi diventano dipendenti dal potere pubblico vigente, da cui sperano soccorso.
E anche se lo aspettano invano, hanno altro da occuparsi che fare la rivoluzione: mangiare, lavarsi, coprirsi.
Per questo le rivoluzioni sono state sempre scatenate dalle classi in ascesa, non in declino.
La rivoluzione francese fu opera di una borghesia sempre più ricca e sicura di sé e delle sue competenze, non dei poveri stracciati e affamati di cui parla la mitologia.
La miseria crescente consolida il potere illegittimo, lungi dal minarlo.
Cosa che ogni Casta capisce benissimo.
Eppure pensate se quei debitori pignorati che sono milioni, pensate se i 700 mila italiani che nei prossimi mesi saranno nei guai per il tasso variabile, fossero «organizzati»: sarebbero la «massa critica» rivoluzionaria.
Se «tutti insieme» rifiutassero di pagare l’eccedente variabile del mutuo, se resistessero con la forza, spalleggiati fisicamente dagli altri e assistiti da avvocati rivoluzionari, al sequestro della casa in cui abitano - atto cui hanno, profondamente, legittimo diritto - il sistema bancario e quello «politico» della Casta (sono tutt’uno) sarebbe immediatamente in pericolo di collasso.
La sedicente opposizione, i partiti politici anti-Prodi a parole, potrebbero farlo.
O almeno provarci.
Non lo fanno.
Anche Berlusconi ha la sua banca, e Bossi ne aveva una (divorata dai caporioni leghisti del «Nord efficiente ed onesto»); tutti sperano di averne una.
Il primo atto di Veltroni come capo dello spettrale partito democratico, è stato di «farsi» una sua banca.
«Loro» sanno bene cosa fare, «noi» no.
Loro hanno tutti i mezzi dello Stato che occupano, i debitori con tasso variabile no.
Loro hanno «la legge» a loro favore.
E soprattutto, «loro» sono sprovvisti di ogni minimo scrupolo morale e sociale, mentre fra «noi» ci sono tanti che obietterebbero, poniamo, alla violenza fisica rivoluzionaria, che si ritrarrebbero dal versare il sangue degli oppressori, che si farebbero scrupolo di «violare le leggi».
Uno dei maggiori ostacoli alla rivoluzione non è esterno ma interno, psicologico.
Lo riconosce chiaramente Hirschhorn, per la situazione americana: «Non abbiamo contro solo l’elite di potere (la Casta). Abbiamo contro la resistenza psicologica di milioni di americani ad accettare la dolorosa verità sull’11 settembre, una verità impensabile, vergognosa sul governo che hanno eletto. Anche se dubitano della storia ufficiale, istintivamente si ritraggono ed elevano barriere mentali contro la piena verità. Vogliono continuare a credere che vivono in una grande democrazia. Vogliono credere che, una volta sostituito il governo Bush, la nostra democrazia sarà di nuovo sana. E’ difficile accettare che la verità sull’11 settembre non avrebbe potuto essere stata soppressa così a lungo senza la tacita o esplicita approvazione dei politici democratici».
L’ultimo passo è ovviamente diretto alla sedicente opposizione del partito democratico USA, che come la nostra, non si oppone ma è complice.
E’ un momento duro, per cittadini che credono ancora alla legalità e alla democrazia, scoprire che un’opposizione non c’è.
Che si è ridotti alla proprie sole forze, e che occorre auto-organizzarle.
Il resto delle proposte di Hirschhorn risente di questa difficoltà psicologica e di questa ingenuità onesta, che ci ostacola: egli chiede che il popolo si sollevi per esigere, in occasione delle presidenziali 2008, che il Congresso e lo stesso presidente (Bush!) ratifichino una legge che «istituisca l’impegno di scoprire la verità sull’11 settembre».
E come obbligarli?
Il professore parla di minaccia popolare («La minaccia è una necessità assoluta»), ma poi ecco cosa intende per «minaccia»: «Se tale legge non è varata dal Congresso e firmata dal presidente Bush, allora dobbiamo decisamente attivare il sostegno per un boicottaggio del voto per tutti i candidati, democratici e repubblicani, nelle elezioni del 2008».
Che mite minaccia, si può dire.
Hirschhhorn pensa ancora in termini di leggi da varare, di Congressi che le varano e presidenti che le firmano.
Pensa in termini di «diritto» vigente, di legalità costituzionale, quello che è esattamente da rovesciare.
Ma non ridiamo di questa ingenuità.
Almeno, in America si comincia a pensare e a parlare di democrazia tradita, e di «come» fare a fondare la nuova, necessaria legittimità.
Il processo è solo germinale.
Ma è difficile «pensare» la rivoluzione.
Nel mio piccolo, non chiedetemi di dire qualcosa di più.
Ciò che posso dire sono cose non del tutto favorevoli alle prospettive di un vero mutamento.
So che le rivoluzioni sono fatte da classi in ascesa, e noi stiamo decadendo (solo la Casta arricchisce).
So che i capi rivoluzionari erano giovani, e noi siamo un popolo di vecchi.
So che le rivoluzioni di successo sono state «finanziate»: Lenin dai tedeschi per accelerare la caduta dello Zar, Mussolini dagli inglesi perché avevano bisogno di un socialista che fosse interventista, Hitler dai grandi industriali contro la minaccia comunista.
Le rivoluzioni costano.
So che le rivoluzioni sono un problema tecnico, ossia di organizzazione tattica: e che per questo si dotarono in genere di rivoluzionari «di professione», agitatori e sabotatori o attivisti stipendiati.
Erano stipendiati per fare la parte del «popolo» i sanculotti che passavano le giornate all’assemblea a sostenere Robespierre e ad intimidire gli altri deputati.
Stipendiati ovviamente i funzionari comunisti, «avanguardia del proletariato», esecutori delle strategie di Lenin e delle tattiche paramilitari di Trotzsky.
Non si può fare la rivoluzione part-time, dedicandole le sere libere perché la mattina si deve andare a lavorare.
Vedo anche che, mentre la rivoluzione francese aveva da rovesciare solo qualche migliaio di nobili privilegiati, oggi i privilegiati, quelli che traggono benefici indebiti dalla «legalità» vigente e dunque sostengono lo status quo (che coincide coi loro stipendi) sono decine di milioni: e il loro numero si allarga continuamente.
Per giunta, come diceva Richelieu, chi si oppone allo Stato è, per questo solo fatto, due volte più debole dello Stato stesso.
Vedo che sono rimaste pochissime zone sociali o economiche sottratte al potere della Casta pubblica o parapubblica.
Un tempo, un’arma rivoluzionaria importante in mano alla sinistra fu lo sciopero generale: i treni non viaggiavano, le centrali elettriche si spegnevano, le merci non arrivavano ai mercati, i giornali non uscivano, la spazzatura non veniva raccolta.
Il potere «legale» non poteva più esercitare il governo reale.
Ma questo accadeva quando c’erano le fabbriche e gli operai, e li organizzavano sindacati rivoluzionari (o sovversivi) come un esercito, «l’armata del lavoro».
Oggi le fabbriche sono in Cina e gli operai una specie in estinzione: ci sono «consumatori» e «contribuenti», pubblicitari, modisti e veline, che non hanno in mano gli impianti e le centrali tecniche il cui blocco può far paura al potere.
A Napoli la spazzatura non viene raccolta, e la cittadinanza sopporta per anni, passiva.
Si è passivi quando non si è organizzati.
Ci lasciamo seppellire vivi dalla rumenta, e andiamo avanti senza aggredire il Palazzo d’Inverno. Che era un mito, non ci fu alcun attacco della masse al Palazzo d’Inverno, ma gli ottomila professionisti addestrati agli ordini di Trotszky: quelli che presero possesso delle centrali elettriche e telefoniche, delle ferrovie e degli acquedotti, e li fecero funzionare non più per il «legale» Kerenski, ma per Lenin.
Però abbiamo visto un caso, recente, che somiglia molto a quello evocato: lo sciopero dei TIR.
Per due giorni, non arrivavano le merci, niente carne né verdura ai mercati, niente benzina, pochi giornali.
Se i padroncini dei TIR siano una classe rivoluzionaria, ecco l’interrogativo: ma almeno hanno mostrato di essere una classe indispensabile, con in mano un potere reale, e il coraggio di agire fisicamente.
Sono forse gli ultimi ad avere questo potere reale di classe necessaria?
Siamo solo allo stato germinale.
Parliamone, diamo delle idee.
In USA hanno cominciato.
Maurizio Blondet
Note
1) Nina Rotschild Utne, «I won’t pay my taxes if you don’t pay yours», Utne Reader, 24 dicembre 2007.
2) «9/11 et le moment de vérité». Dedefensa, 22 dicembre 2007. «Une proposition révolutionnaire: exiger du système américaniste qu’il fasse toute la lumière sur l’attentat du 11 septembre 2001 pour mieux pouvoir mettre en accusation le système américaniste dans son ensemble et depuis les origines».
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